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    Lo sapete che è in corso una battaglia?

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    By Articolo 26 on 1 Ottobre 2014 Senza categoria

    C’è chi l’ha definita “ingegneria semantica”. Termine troppo complicato? Niente paura, qualche esempio e sarà tutto più chiaro.

    Poniamo il caso che una ideologia cerchi di sdoganare al mondo intero una visione della realtà, che però con la realtà stessa si scontra al punto che gli esseri umani non hanno mai sentito la necessità di utilizzare delle parole per descrivere i suoi concetti portanti…

    Il vocabolo genere ad esempio è stato coniato solo di recente e non faceva parte del lessico comune mica per un fatto di omofobia… quanto per il fatto che nessuno ne aveva bisogno per parlare della vita: oggi questo termine è così inflazionato che ha praticamente del tutto soppiantato l’ormai desueto termine sesso. E a proposito di omofobia, se ci riflettete un secondo, anche questo termine è nuovo di zecca: inventi una parola, le assegni il significato che più ti aggrada e il gioco è fatto!

    Ma non finisce qui: l’operazione continua con i termini che già usiamo correntemente; essi vengono presi, svuotati del loro significato originario e poi riempiti di nuovo con la semantica che si ritiene più opportuna; in maniera tale che se noi ad esempio parliamo di famiglia, di matrimonio, di amore non siamo più in grado di comprenderci a meno di non fare mille precisazioni un tempo inutili (famiglia tradizional-eterosessuale, matrimonio uomo-donna, ecc.)

    Ma attenzione! La battaglia terminologica non è una battaglia qualsiasi e non va assolutamente sottovalutata: chi porta avanti questo tipo di iniziative sa bene infatti che i vocaboli non sono solamente parole, ma esprimono concetti, richiamano immagini, modi di intendere e pensare le cose: e cambiare il significato delle parole significa modificare la visione della realtà!

    Omoparentalità è una contraddizione in termini, ma presto impareremo ad utilizzarlo senza porci troppe domande.

    Genitore 1 e genitore 2 è un abominio lessicale al quale già ci siamo dovuti piegare.

    Utilizzare l’espressione persona incinta al posto di donna incinta per non discriminare un transgender ed in nome del politically correct è già buona norma nel nord d’Europa.

    Descrivere un intervento di cambio di sesso come affermazione di genere sembrerà presto naturale ai nostri figli, se è vero che fin da piccoli sono destinati ad essere indottrinati sulla “fluidità dell’identità sessuale” (cit. dottor Money).

    Dovremo presto ricomprare i dizionari perché, se ci fate caso rileggendo sopra, tutte le parole sessuate sono al bando e presto ne verranno espulse; l’impressione però è che il problema principale che avremo non sarà costituito dai 10 euro per l’acquisto del nuovo dizionario…

     

    Per approfondimento: riportiamo dalla Bussola

    La neolingua gender si impone nella grammatica

    di Tommaso Scandroglio

    Se li trovi nei contratti di assicurazione li temi. Piccoli, fastidiosi e spesso letali. Sono gli asterischi. Ti imbatti in uno di loro e subito vai al rimando a piè di pagina per scoprire in quali guai ti andrai a ficcare firmando il contratto (i famosi “guai assicurati”). Da poco però è nata una nuova genia di asterischi. Quelli gender.

    Nella «Dichiarazione d’intenti per la condivisione di buone pratiche non discriminatorie della lingua italiana», siglata dagli atenei di Trieste ed Udine e dalla Scuola Superiore di Studi Avanzati di Trieste, si propongono suggerimenti in merito all’uso grammaticale del maschile e del femminile nei documenti ufficiali al fine di “non discriminare” le donne. In particolare provocano imbarazzo sessista frasi del tipo: “gli studenti e le studentesse sono stati sgridati”. Perché “sgridati” e non “sgridate”? Perché coniugare il participio, quando riferito sia a maschi che a femmine, prediligendo sempre il genere maschile? Occorre eliminare, si fa notare nel documento, queste dissimmetrie grammaticali. Da qui la soluzione proposta ad un convegno a Zurigo: “gli studenti e le studentesse sono stat* sgridat*”. E poi ci chiediamo perché non si danno mai soldi a sufficienze alla ricerca.

    Il Corriere della Sera prende al balzo la palla e si fa questa domanda: cosa fare per indicare chi non si sente né uomo né donna? Cioè quale vocale usare per il transgender e l’asessuato? Questi eterosessuali ormai hanno ottenuto il monopolio di tutte le vocali (o/i ed a/e) ad esclusione della “u”. Ma parlare di “professoru” e “presidu di facoltà” forse suona troppo sardo. Allora ecco arrivare il colpo di genio: usiamo anche per i sessualmente indefiniti l’asterisco, perfetto al fine di “riconoscere anche altre possibilità di genere, oltre al maschile e al femminile”. E così avremo “professor*” e “ricercat*” e frasi del tipo «Studentesse e studenti sono invitat* a presentarsi…» (pare barese) ad uso e consumo per gli indecisi del sesso.

    Quindi la soluzione per assegnare dignità grammaticale a color che sessualmente stan sospesi è un asterisco. Primo passo dell’esperanto omosessuale, della neo lingua per un neo popolo. D’altronde l’asterisco è la soluzione ottimale, infatti indica l’assenza di suono, la troncatura (o stroncatura) della parola. Così come il gender che è assenza di definizione, è neutralità sessuale, è (s)troncatura dell’umano nella sua dimensione binaria uomo/donna a noi così usuale. Né maschile né femminile come l’Onnipotente che però è Padre. Solo che “Dio” si scrive senza asterisco alcuno.

    C’è da aspettarsi a breve un gragnuola di segni grafici per altrettante sfumature di orientamento sessuale: le virgolette per i bisessuali, ^ per i queer e § per gli intersessuali. Successivamente si inventeranno anche i fonemi per ognuno di questi sema. E il risultato sarà che noi prenderemo per refusi di stampa queste stramberie grafiche e a sentire parlare la neolingua gender per strada penseremo che l’immigrazione di stranieri starà toccando vertici mai raggiunti.

    Ma sì lasciamo ai cultori del gender gli asterischi, le virgolette e pure la chiocciola della mail. Noi ci teniamo volentieri tutto il resto dell’alfabeto che ha generato la Divina Commedia e i Promessi sposi. L’unico dubbio che inquieta è il seguente: vuoi vedere che per compiacere la terza metà del cielo – quella gay – anche questi due capolavori dovranno subire un’adulterazione grammaticale e diventare Divin* Commedi* e Promess* Spos*?

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